Patologia
Le neoplasie mieloproliferative croniche sono un gruppo di malattie del sangue che hanno caratteristiche comuni: derivano infatti da alterazioni genetiche acquisite, che modificano il funzionamento delle cellule staminali del midollo osseo, cioè quelle da cui originano globuli rossi, globuli bianchi e piastrine.
A causa di queste mutazioni, le cellule continuano a crescere e a moltiplicarsi in modo eccessivo. Il risultato è un aumento anomalo di uno o più tipi di cellule nel sangue, variabile a seconda del sottotipo di malattia. A livello del midollo osseo le cellule malate possono produrre alterazioni infiammatorie con formazione di tessuto fibroso (fibrosi midollare). Talvolta, le cellule ematopoietiche compaiono e si riproducono nella milza e nel fegato (metaplasia mieloide).
Tipologie
Secondo le più recenti classificazioni internazionali (WHO 2022 e ICC 2022), le neoplasie mieloproliferative croniche comprendono:
- Leucemia mieloide cronica (LMC)
- Policitemia vera (PV)
- Trombocitemia essenziale (TE)
- Mielofibrosi (MF), che può comparire fin dall’inizio (primaria) oppure evolvere da PV o TE
Accanto a queste forme più comuni, esistono entità più rare, come:
- la leucemia neutrofilica cronica (LNC)
- la leucemia eosinofilica cronica (LEC)
- la leucemia mielomonocitica giovanile (JMML)
- le neoplasie mieloproliferative croniche, non altrimenti specificate (MPN-NOS), cioè forme che non rientrano pienamente nei criteri delle precedenti ma mostrano le stesse caratteristiche biologiche.
Fattori di rischio
Le neoplasie mieloproliferative croniche sono malattie rare e spesso si sviluppano senza cause note. Alcuni fattori che possono predisporre a un maggiore rischio di svilupparle sono:
- Età: sono più frequenti nelle persone sopra i 60 anni, anche se possono manifestarsi in età più giovane;
- Sesso: alcune forme, come la Policitemia Vera, risultano leggermente più comuni negli uomini rispetto alle donne;
- Mutazioni genetiche specifiche: mutazioni come JAK2, CALR o MPL sono presenti in molti pazienti e influenzano la produzione delle cellule del sangue. Queste mutazioni non sono ereditarie nella quasi totalità dei casi, ma possono svilupparsi nel midollo osseo nel corso della vita;
- Esposizione a sostanze chimiche o radiazioni: esposizioni a lungo termine a sostanze chimiche industriali o a radiazioni ionizzanti possono aumentare il rischio, anche se nella maggior parte dei casi non c’è una causa identificabile;
- Storia familiare: avere parenti con una neoplasia mieloproliferativa cronica può leggermente aumentare il rischio, ma la maggior parte dei pazienti non ha casi in famiglia.
Diagnosi ed esami
Le neoplasie mieloproliferative croniche sono generalmente patologie ad andamento cronico, con una fase di latenza anche molto lunga, per cui spesso la diagnosi può avvenire in maniera occasionale.
Leucemia mieloide cronica (LMC)
La Leucemia mieloide cronica (LMC) è una malattia tumorale delle cellule staminali emopoietiche caratterizzata da un’aumentata proliferazione dei precursori dei globuli bianchi (serie “mieloide”).
È causata da un’alterazione cromosomica detta traslocazione reciproca tra il cromosoma 9 e il cromosoma 22 (cioè una porzione di cromosoma 9 si lega al cromosoma 22 e viceversa) che genera il cromosoma Philadelphia (Ph+), così chiamato perché scoperto nel 1960 a Philadelphia. Questa traslocazione genera un gene ibrido anomalo BCR-ABL che a sua volta dà origine a una proteina anomala, una tirosin-chinasi, che fa proliferare le cellule in modo incontrollato.
A oggi non si conoscono con certezza le cause che determinano l’origine della malattia, anche se vi è un rischio aumentato in caso di esposizione a radiazioni ionizzanti o ad agenti chimici potenzialmente cancerogeni.
Epidemiologia
La LMC è una patologia rara che colpisce circa 2 persone su 100.000 ogni anno. È una malattia che si presenta soprattutto in età avanzata: e la metà circa dei casi viene diagnosticata nelle persone di almeno 65 anni e con una lieve prevalenze negli uomini.
Sintomi e decorso clinico
La Leucemia mieloide cronica si presenta, generalmente, in una fase cronica, tipicamente asintomatica o con sintomi clinici lievi come febbricola, stanchezza marcata (astenia), perdita di peso.
È inoltre possibile riscontrare un ingrandimento della milza (splenomegalia), che può essere asintomatico oppure, se importante, determinante senso di ripienezza post-prandiale, dolore al fianco sinistro, aumento di volume dell’addome.
In una minoranza dei casi la malattia si presenta o evolve in una fase più avanzata, caratterizzata da un aumento delle cellule immature che danno origine ai globuli bianchi, i cosiddetti blasti. La fase avanzata di LMC si distingue in fase accelerata o crisi blastica in base al numero dei blasti e ad altre caratteristiche biologiche, come il numero delle piastrine o la presenza di altre anomalie cromosomiche.
Diagnosi
In quasi la totalità dei pazienti la diagnosi è effettuata durante la fase cronica, spesso in modo assolutamente casuale attraverso i normali controlli del sangue, eseguiti per routine o altre cause.
L’emocromo evidenzia un numero di globuli bianchi aumentato (leucocitosi) e/o un aumento di piastrine (piastrinosi o trombocitosi), anche se in alcuni casi le piastrine possono risultare ridotte (piastrinopenia).
La conferma della diagnosi avviene attraverso:
- esami del sangue, per valutare l’emocromo, il valore di LDH, la funzionalità epatica e renale, il dosaggio dell’acido urico;
- l’analisi del midollo osseo, che è la fabbrica dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine, mediante un prelievo (biopsia osteomidollare), che viene generalmente effettuato in anestesia locale, a livello della cresta iliaca postero-superiore del bacino (nella parte alta del gluteo). Con tale procedura, si aspira sangue midollare e si preleva un piccolo cilindro di osso. Il campione istologico viene processato ed analizzato presso il laboratorio di Anatomia Patologica;
- l’analisi al microscopio dello striscio di sangue periferico e midollare per vedere la morfologia delle cellule e contare il numero delle cellule anomale immature (blasti);
- l’esame citogenetico e la a FISH (ibridazione fluorescente in situ) su sangue midollare per studiare i cromosomi ed evidenziare il cromosoma Ph+, la cui presenza è diagnostica per LMC;
- l’analisi molecolare su sangue periferico che consente di valutare la presenza e di quantificare il trascritto del gene BCR-ABL e quindi delle cellule leucemiche residue, ed è utile per monitorare la risposta alla terapia;
- radiografia del torace, ecografia ed in casi selezionati TAC dell’addome, utili a completamento diagnostico. Sono esami che vengono effettuati presso la divisione di Radiodiagnostica.
Terapia e valutazione della risposta
La terapia della LMC è stata completamente rivoluzionata dall’avvento degli inibitori delle Tirosin Chinasi (TKI), che hanno inaugurato l’era delle terapie mirate. Questi sono diretti in maniera specifica contro la proteina anomala prodotta dal cromosoma Ph+.
L’imatinib è stato il capostipite di questa famiglia di farmaci, ma ad oggi abbiamo a disposizione altri inibitori tirosin chinasici di 2°, 3° e 4° generazione, quali il dasatinib, il nilotinib, il bosutinib, il ponatinib e l’asciminib, che agiscono sullo stesso bersaglio e si assumono tutti per per via orale.
Il medico sceglierà la terapia più appropriata per ciascun paziente a seconda del profilo di tossicità di ogni farmaco, delle patologie associate del paziente e delle caratteristiche biologiche della malattia (ad esempio la presenza di mutazioni di BCR/ABL).
Monitoraggio della risposta
L’efficacia della terapia si valuta inizialmente con l’esame del sangue venoso periferico, per verificare il raggiungimento di una risposta ematologica completa. Questo esame si ripete a intervalli variabili da una settimana a tre mesi, per controllare la tossicità e per monitorare la risposta.
Una volta ottenuta una risposta ematologica completa si usano la citogenetica e la biologia molecolare per determinare i livelli di malattia residua al 3°, al 6°, e al 12° mese di terapia e poi a intervalli variabili da 3 a 6 mesi.
L’obiettivo della terapia della LMC è ottenere precocemente una risposta ematologica completa, ovvero una normalizzazione dei valori dell’emocromo, e in seguito la scomparsa del cromosoma Philadelphia dalle cellule midollari (risposta citogenetica completa) e infine riduzione fino alla scomparsa del trascritto BCR-ABL dal sangue periferico (risposta molecolare).
Nei pazienti che raggiungono una risposta molecolare profonda con una riduzione significativa e stabile delle cellule leucemiche misurata tramite il trascritto di BCR/ABL, è possibile dopo un periodo di trattamento prolungato (in genere almeno 5 anni), tentare la sospensione dell’inibitore tirosin-chinasico, con uno stretto monitoraggio clinico-laboratoristico.
Qualora non si ottenga una riposta al TKI utilizzato in prima linea o in caso di tossicità, è possibile sostituire il farmaco in atto con un inibitore tirosin-chinasico differente, che possa superare gli eventuali meccanismi di resistenza delle cellule leucemiche. Nei casi in cui la risposta non venga comunque raggiunta o la malattia evolva nella sua fase acuta, un’opzione terapeutica potrà essere il trapianto di cellule staminali.
Policitemia vera (PV)
La policitemia vera (PV) è una malattia mieloproliferativa caratterizzata da una produzione incontrollata di globuli rossi (eritrocitosi) e, in alcuni casi, di globuli bianchi e piastrine.
È causata dalla mutazione del gene JAK2 a livello della cellula staminale, che comporta uno stimolo continuo alla produzione delle cellule sangue. Viene diagnosticata in genere per il riscontro all’emocromo di un aumento dei valori di emoglobina e dell’ematocrito (percentuale di globuli rossi relativa a tutto il volume ematico).
Epidemiologia
La PV si verifica in circa 1-2 persone su 100.000.
Sintomi e decorso clinico
I pazienti con Policitemia Vera possono essere asintomatici oppure presentare sintomi legati all’aumentata viscosità del sangue, come cefalea, alterazioni della visione, prurito dopo il bagno o la doccia, arrossamento e calore di mani e piedi, spesso accompagnati da bruciore (eritromelalgia). Il fegato e la milza possono ingrossarsi in quanto entrambi iniziano a produrre cellule ematiche.
Inoltre la Policitemia Vera è caratterizzata da un aumentato rischio di eventi ischemici cerebrali o cardiaci e di trombosi venose, che a volte possono essere il sintomo di esordio della malattia.
La PV è una malattia cronica che con le attuali strategie terapeutiche si associa a una sopravvivenza prolungata. Solo una minoranza dei pazienti infatti sviluppa negli anni una forma di malattia mieloproliferativa più avanzata, quale la mielofibrosi, e una percentuale ancora minore una leucemia acuta.
Diagnosi
La diagnosi di Policitemia Vera avviene in genere mediante il riscontro all’emocromo di valori di globuli rossi, emoglobina ed ematocrito elevati, a volte associati a un incremento del numero delle piastrine e dei globuli bianchi.
Con un’accurata anamnesi (valutazione della storia famigliare e delle malattie pregresse o concomitanti) bisogna escludere le forme di eritrocitosi causate da altre patologie (eritrocitosi secondaria) o le rarissime forme congenite.
Gli esami diagnostici principali sono:
- dosaggio dei livelli ematici di eritropoietina, un ormone prodotto dal rene che stimola il midollo osseo a produrre globuli rossi. I livelli di eritropoietina di solito sono al di sotto della normalità nella PV, mentre possono essere normali o elevati nelle forme secondarie;
- la ricerca di mutazioni del gene JAK2 su sangue venoso periferico, presente nella quasi totalità dei pazienti;
- la ricerca di altre mutazioni associate alle sindromi mieloproliferative come BCR/ABL, CALR, MPL
- l’analisi del midollo osseo, che è la fabbrica dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine, mediante un prelievo (biopsia osteomidollare), che viene generalmente effettuato in anestesia locale, a livello della cresta iliaca postero-superiore del bacino (nella parte alta del gluteo). Con tale procedura, si aspira sangue midollare e si preleva un piccolo cilindro di osso. Il campione istologico viene processato ed analizzato presso il laboratorio di Anatomia Patologica. Morfologicamente, nel midollo osseo, è evidente un’iperplasia di tutte e tre le linee di cellule emopoietiche, globuli rossi, globuli bianchi e piastrine (panmielosi).
Terapia
La terapia della Policitemia Vera ha come primo obiettivo ridurre l’incidenza degli eventi trombotici.
Per questo si utilizzano farmaci antiaggreganti, come l’acido acetil-salicilico o, in caso di precedenti trombosi venose profonde, farmaci anticoagulanti, come il warfarin o gli anticoagulanti orali diretti (NAO).
Per ridurre il numero dei globuli rossi circolanti si possono effettuare salassi periodici, che consistono nel prelevare circa 400 cc di sangue e reinfondere pari quantità di soluzione fisiologica, con l’obiettivo di mantenere l’ematocrito al di sotto del 45%.
Nei pazienti con età superiore a 60 anni, che presentino una storia di eventi trombotici o che non riescano a normalizzare i valori dell’emocromo con i soli salassi (ad esempio per aumento di globuli bianchi e piastrine) si utilizzano farmaci definiti “citoriduttivi”, ovvero che abbassano i valori delle cellule del sangue.
Il farmaco di prima scelta è in genere l’idrossiurea, che agisce sulla replicazione cellulare riducendola. Si assume per bocca in maniera cronica a un dosaggio variabile da paziente a paziente.
In caso la terapia con idrossiurea non sia efficace o si associ a effetti collaterali importanti si possono utilizzare altri farmaci come l’interferone, i JAK2 inibitori o in pazienti anziani i farmaci alchilanti (come il busulfano).
L’interferone è un farmaco immunomodulante, che agisce sul sistema immunitario riducendo il numero di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Attualmente si utilizzano formulazioni di interferone a rilascio prolungato (peghilate), che si somministrano per via sottocutanea ogni 2 o più settimane in base alla risposta (es. ro-peg-ineterferon alpha2b).
Inoltre nei pazienti intolleranti o non responsivi a idrossiurea si può utilizzare il ruxolitinib, un farmaco –bersaglio che agisce inibendo la via di segnalazione di JAK2.
Trombocitemia essenziale (TE)
La trombocitemia essenziale (TE) è una neoplasia mieloproliferativa caratterizzata da un’eccessiva produzione di piastrine che causa anomalie della coagulazione del sangue con comparsa di fenomeni trombotici o, paradossalmente in rari casi, sanguinamenti.
Epidemiologia
L’incidenza è stimata in circa 1.5-2.4 casi per 100.000 persone. La malattia è più frequente nelle donne, e l’età media alla diagnosi è intorno ai 60 anni, anche se il 20% dei pazienti circa è diagnosticato prima dei 40 anni.
Decorso clinico
La Trombocitemia Essenziale può essere sintomatica o meno. I sintomi, se presenti, possono essere legati ad alterazioni della circolazione del sangue o, in alcuni casi, ad eventi ischemici o trombotici causati dal blocco di alcuni vasi sanguigni da parte dei coaguli di sangue (trombi).
I sintomi più comuni sono cefalea, formicolio e altre sensazioni anomale dei polpastrelli, delle mani e dei piedi, dolore toracico, perdita della vista o visione di puntini, debolezza, vertigini, sanguinamenti, di solito lievi (come sanguinamenti dal naso, facilità alla formazione di lividi, lieve essudato dalle gengive o sanguinamenti nel tratto digerente). Nonostante l’aumento numerico delle piastrine, si possono verificare eventi emorragici piuttosto che trombotici, legati all’interferenza della piastrine con il fattore di von Willebrand, proteina essenziale della coagulazione. La milza può aumentare di volume, ma questo evento (splenomegalia) non è così frequente.
L’aspettativa di vita è quasi normale e il decorso della malattia è solitamente benigno. Circa il 10% dei casi può evolvere in una forma di malattia più avanzata quale la mielofibrosi e l’evoluzione verso una leucemia acuta è molto rara (1-3%).
Diagnosi
La diagnosi di Trombocitemia Essenziale viene formulata in base ai sintomi e dopo aver constatato l’aumento delle piastrine nell’emocromo ed aver escluso cause di piastrinosi reattiva (perdite ematiche, traumi, infezioni, neoplasie, splenectomia).
La causa risiede in una mutazione genetica, che di solito interessa i geni della chinasi JAK2, il recettore della trombopoietina (MPL), un fattore di crescita per la produzione piastrinica, o il gene CALR. Identificare la mutazione in uno di questi geni conferma la diagnosi di trombocitemia essenziale, ma l’assenza di mutazioni non la esclude.
Per distinguerla dalle altre forme di malattia mieloproliferativa è necessario anche eseguire la ricerca della mutazione di BCR/ABl e l’esame del midollo osseo tramite biopsia osteomidollare e l’esame istologico.
Terapia
Il rischio trombotico viene stratificato tramite lo score IPSET (International Prognostic Score for Thrombosis in Essential Thrombocythemia) che tiene conto di quattro fattori principali: età superiore a 60 anni, storia di eventi trombotici, presenza di fattori di rischio cardiovascolare (come fumo, ipertensione, diabete) e la mutazione genetica JAK2 V617F. In base a questi fattori, i pazienti vengono divisi in gruppi a basso, medio o alto rischio di trombosi, aiutando così il medico a scegliere la terapia più adatta per prevenire complicazioni.
I pazienti a basso rischio (assenza di fattori) generalmente non necessitano di terapia antiaggregante o anticoagulante, salvo indicazioni individuali.
Nei pazienti a rischio intermedio o alto (presenza di uno o più fattori) si raccomanda l’uso di acido acetil-salicilico a basse dosi per prevenire eventi trombotici o di anticoagulanti in caso di eventi trombotici precedenti. Inoltre i pazienti ad alto rischio necessitano di una terapia citoriduttiva che normalizzi la conta piastrinica.
A tale scopo si possono utilizzare l’idrossiurea, l’anagrelide, o, nei pazienti più giovani, l’interferone nella sua forma peghilata.
Mielofibrosi idiopatica (MF)
La mielofibrosi è una forma di neoplasia mieloproliferativa cronica in cui il midollo osseo viene progressivamente sostituito da tessuto fibroso.
Quando insorge senza una storia precedente di altre malattie del sangue, prende il nome di mielofibrosi primaria; se invece deriva dall’evoluzione di una Policitemia Vera o di una Trombocitemia Essenziale, si parla di mielofibrosi secondaria post PV o TE.
Epidemiologia
L’incidenza della malattia è bassa (stimata in circa 0,5-1,3 casi su 100.000 persone) e rientra nella definizione di malattia rara. L’età media alla diagnosi è intorno ai 65 anni.
Sintomi e decorso clinico
La Mielofibrosi Idiopatica inizialmente può essere asintomatica. Successivamente possono comparire sintomi legati all’aumento della milza (splenomegalia), al calo dei valori dell’emocromo o i cosiddetti “sintomi costituzionali”, come perdita di peso, malessere generalizzato, febbre, sudorazione notturna.
La splenomegalia può causare senso di distensione addominale, ripienezza post-prandiale, dolore al livello del fianco sinistro.
In caso di anemia possono manifestarsi stanchezza, debolezza, dispnea da sforzo.
In caso di alterazione del numero delle piastrine, che possono essere sia elevate che ridotte, vi possono essere manifestazioni trombotiche o emorragiche.
Se il numero di globuli bianchi si riduce, l’organismo è a rischio di infezioni.
La sopravvivenza nella mielofibrosi primaria può variare: alcuni pazienti hanno un decorso lento e stabile, altri possono avere un’evoluzione più rapida.
Esistono sistemi di stratificazione del rischio che, considerando dati clinici, esami del sangue e informazioni genetiche, aiutano i medici a identificare i diversi gruppi prognostici e a scegliere il trattamento più adatto a ciascun paziente.
Diagnosi
La Mielofibrosi Idiopatica deve essere sospettata in pazienti con splenomegalia e alterazioni dell’emocromo che possono essere sia aumento che riduzione di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Se si sospetta la patologia, è opportuno effettuare oltre all’emocromo i seguenti accertamenti:
- lo striscio di sangue periferico per valutare la morfologia dei globuli rossi e determinare il numero di cellule immature. Infatti si possono trovare in circolo globuli rossi con alterazioni nella forma (es. dacriociti) o precursori dei globuli bianchi (mieloblasti) o rossi (eritroblasti);
- dosaggio LDH, che spesso si presenta aumentato;
- biopsia osteomidollare per esame istologico e determinazione del grado di fibrosi;
- la ricerca di mutazioni di JAK2, CALR o MPL;
- la ricerca di altre mutazioni su sangue venoso periferico o midollare tramite un più ampio pannello di sequenziamento di nuova generazione (NGS) per rilevare mutazioni geniche associate a un aumentato rischio di trasformazione leucemica. Quest’analisi può essere utile per la prognosi, soprattutto per i pazienti più giovani e candidabili al trapianto di cellule staminali emopoietiche;
- ecografia addominale o, se necessario, TAC dell’addome per misurare fegato e milza ed escludere manifestazioni trombotiche dei vasi addominali
Terapia
La terapia è mirata al controllo dei sintomi e delle complicanze. Alcuni pazienti possono essere osservati senza trattamento.
I pazienti che manifestano sintomi sistemici, incremento della milza, dei globuli bianchi o delle piastrine devono ricevere una terapia citoriduttiva.
In base all’età, alle patologie concomitanti, alle condizioni generali e al rischio di progressione di malattia determinato mediante i principali score prognostici (IPSS, DIPSS, DIPSS-plus, MYSEC, MIPPS), i pazienti potranno ricevere una terapia con idrossiurea, o con farmaci –bersaglio che inibiscono la via di segnalazione di JAK2 (inibitori di JAK2) riducendo i sintomi e la splenomegalia, o essere indirizzati a un percorso di trapianto allogenico di cellule staminali.
Per la MFI a rischio intermedio alto con aumento della milza gli inibitori di JAk2 (ruxolitinib, momelotinib o fedratinib) sono i farmaci di prima scelta. Si somministrano per bocca in cronico e sono in grado di ridurre i sintomi associati alla mielofibrosi e la splenomegalia in una buona percentuale di pazienti. Il momelotinib può anche migliorare l’anemia quando presente alla diagnosi. In caso di fallimento della terapia con questi farmaci i pazienti devono essere valutati per terapie sperimentali; sono infatti in fase avanzata di studio nuovi inibitori di JAK2 e farmaci che agiscono su altri meccanismi cellulari.
In associazione ai farmaci sopra elencati o qualora questi falliscano o siano controindicati, si possono utilizzare i corticosteroidi a basso dosaggio per il controllo dei sintomi; androgeni, eritropoietina e trasfusioni per correggere l’anemia; radioterapia splenica per cercare di ridurre le dimensioni della milza quando i JAK2 inibitori abbiano fallito o siano controindicati.
I pazienti con mielofibrosi ad alto rischio con età <70-75 anni devono essere valutati precocemente per la candidabilità a trapianto allogenico, ed essere riferiti a un onco-ematologo esperto in terapia cellulare. La procedura prevede prima la somministrazione di una chemioterapia preparatoria che distrugge tutte le cellule del midollo osseo e poi l’infusione nel paziente di cellule staminali sane provenienti dal donatore, che hanno il compito di ripopolare il sangue e il midollo stesso. L’Istituto di Candiolo è dotato di un Centro trapianti e di un programma trapiantologico.
Supporto continuativo
Presso il nostro Istituto garantiamo un supporto costante prima, durante e dopo le cure, per accompagnare ogni paziente lungo tutto il percorso di trattamento e recupero.
Gestione degli effetti collaterali
Tutte le cure oncologiche comportano effetti collaterali che impattano più o meno pesantemente sulla qualità di vita del paziente. Anche i trattamenti per le sindromi mieloproliferative croniche comportano effetti collaterali, sia fisici che psicologici, che possono cambiare la modalità di affrontare la vita quotidiana.
All’Istituto di Candiolo l’attenzione alla qualità di vita del paziente resta prioritaria lungo tutto il percorso di cura: i medici e gli infermieri del team multidisciplinare sono a disposizione del malato per fornirgli tutto il supporto necessario a gestire i diversi effetti collaterali, in particolare attraverso la consulenza nutrizionale, il supporto psicologico e la terapia del dolore.
Linea diretta con gli specialisti
Per garantire un supporto tempestivo e diretto e ricevere risposte tempestive a dubbi e domande, all’Istituto di Candiolo è attivo un servizio di assistenza dedicato a tutti i pazienti.
Dal lunedì al venerdì, dalle 8.00 alle 17.00, è possibile contattare la segreteria del Day Hospital oncologico al numero 011.993.3775, segnalando la necessità di un consulto urgente.
Il paziente verrà rapidamente messo in contatto con il proprio medico specialista, per ricevere risposte chiare e un supporto immediato.
Cure continue e palliative
Il paziente oncologico è una persona con bisogni complessi che richiede un supporto multidisciplinare non solo per la malattia tumorale, ma anche per tutte le problematiche correlate.
All’Istituto di Candiolo, i pazienti che lo necessitano o lo richiedono possono accedere a specialisti in diverse aree per ricevere supporto nutrizionale, fisioterapia, terapia del dolore e gestione di altre patologie associate.
Supporto psicologico
L’impatto del tumore nella vita di una persona riguarda anche la sfera psicologica: ammalarsi di cancro infatti è sempre un avvenimento traumatico che investe tutte le dimensioni della persona e che può generare ansia, paura, rabbia, depressione.
Nel nostro Istituto, accanto alle terapie d’avanguardia, il percorso terapeutico e assistenziale comprende sempre anche un supporto psico-oncologico qualificato che aiuta il paziente ad affrontare positivamente non solo le cure ma anche la delicata fase di recupero fisico e psicologico.
È possibile partecipare anche a gruppi di sostegno psicologico per confrontarsi con altre persone che hanno vissuto o vivono la stessa esperienza.
Assistenza sociale
Il Servizio Sociale dell’Istituto di Candiolo effettua colloqui di informazione e orientamento ai pazienti e ai loro familiari su come accedere ai servizi del territorio e su come ottenere le prestazioni assistenziali e previdenziali previste dalla legge (invalidità, agevolazioni per ausili e protesi, congedi lavorativi ecc.).
Il servizio è attivo il mercoledì e il venerdì dalle 9.00 alle 13.00 (telefono: 011 9933059).
Follow up
In molti casi, le sindromi mieloproliferative croniche vanno solo monitorate nel tempo, senza necessità di avviare un trattamento attivo.
In ogni caso, durante il periodo di follow up, mediante una serie di esami e di visite, vengono monitorati l’andamento della malattia o gli effetti collaterali delle terapie effettuate e la loro efficacia, e si valuta il recupero funzionale del paziente.
I controlli di follow up sono importanti soprattutto per intercettare precocemente eventuali evoluzioni della malattia, in modo da intervenire precocemente ed in maniera adeguata. Per il paziente sono anche una preziosa occasione di dialogo con il proprio medico specialista.
Il percorso di follow up viene programmato con tempistiche e modalità diverse a seconda del tipo di sindrome mieloproliferativa cronica, della terapia eseguita, della risposta ottenuta e delle caratteristiche proprie del paziente.
Gruppo Interdisciplinare
Ogni tumore richiede, in tutte le fasi di gestione della malattia, un approccio multidisciplinare che all’Istituto di Candiolo è garantito da un team di diversi specialisti, appartenenti ai vari dipartimenti clinici e chirurgici dell’Istituto: questo team si chiama GIC (Gruppo Interdisciplinare di Cure). Il GIC assicura la presa in carico di ogni paziente per tutto l’iter diagnostico-terapeutico, comprese la prescrizione e la prenotazione degli esami e la comunicazione con il malato e con i suoi familiari. Il GIC definisce e condivide un percorso di cura personalizzato per ogni paziente, basato non solo sulla tipologia e lo stadio del tumore, ma anche sulle caratteristiche del paziente stesso. L’obiettivo è quello di garantirgli il risultato migliore dal punto di vista sia oncologico sia funzionale e il mantenimento di una buona qualità di vita.Il Gruppo lavora inoltre in stretta collaborazione con i ricercatori dell’Istituto per garantire ai pazienti un rapido accesso alle novità prodotte dalla ricerca nello screening, nella diagnosi e nelle terapie.
Divisioni cliniche
Il percorso diagnostico-terapeutico delle sindromi mieloproliferative croniche a Candiolo coinvolge diverse divisioni cliniche, tra cui:
Studi clinici
La ricerca clinica si concentra sull’ottimizzazione delle terapie disponibili, utilizzando in modo combinato tutte le generazioni di farmaci e inibitori molecolari, con l’obiettivo anche di prevenire eventuali resistenze ai trattamenti, sia nella Leucemia Mieloide Cronica che nelle altre neoplasie mieloproliferative.
Per i pazienti con Leucemia Mieloide Cronica che rispondono in modo efficace ai farmaci, ottenendo una risposta molecolare profonda, numerosi studi clinici hanno dimostrato la possibilità di interrompere la terapia in una buona percentuale di pazienti, trasformando così un trattamento precedentemente cronico in una cura “a tempo definito”.
Nella policitemia vera sono attualmente in studio nuovi farmaci con meccanismo di azione innovativo, ad esempio molecole che riducono l’ematocrito agendo sul metabolismo del ferro.
Nella trombocitemia essenziale sono in studio altre formulazioni dell’interferone e anticorpi monoclonali anti calreticulina.
Nella mielofibrosi, sono in sperimentazione numerosi farmaci che agiscono su diversi meccanismi alla base della malattia. Tra questi ci sono i nuovi inibitori tirosin-chinasici (come il pacritinib), gli inibitori di BET (pelabresib) e gli inibitori di BCL-2 (navitoclax). Le proteine BET e BCL-2 sono coinvolte nella trascrizione del DNA, nella proliferazione e nella sopravvivenza delle cellule tumorali: bloccarne l’attività permette di eliminare le cellule malate.
Altri farmaci in sperimentazione includono gli inibitori di MDM2 (navtemadlin), che favoriscono l’autoeliminazione delle cellule tumorali (apoptosi), e si prestano ad essere combinati con gli inibitori di JAK grazie a meccanismi complementari. Gli inibitori di BTK, invece, agiscono su proteine coinvolte nella risposta infiammatoria, riducendo efficacemente l’infiammazione e risultando utili nei pazienti con sintomi infiammatori importanti e splenomegalia (ingrossamento della milza).
I ricercatori dell’Istituto di Candiolo sono attivamente impegnati in diversi progetti sulle neoplasie mieloproliferative croniche, seguendo le linee guida nazionali e internazionali e partecipando a trial clinici sperimentali.
L’Istituto è anche un centro qualificato per la diagnostica integrata delle neoplasie mieloidi che consente di eseguire le analisi molecolari più complesse e di offrire ai pazienti le migliori opportunità diagnostiche e terapeutiche.
Uno degli obiettivi principali dell’Istituto è collaborare con il maggior numero possibile di ricercatori, fornendo dati sufficienti per trarre conclusioni oggettive sull’efficacia delle strategie terapeutiche nelle neoplasie mieloproliferative croniche.
Perché sceglierci
All’Istituto di Candiolo IRCCS, ogni paziente affetto da sindromi mieloproliferative è seguito secondo canoni di altissima specializzazione, grazie al lavoro sinergico di un Gruppo Interdisciplinare di Cura (GIC) dedicato.
Esperienza clinica e approccio su misura
Grazie all’elevato numero di casi trattati ogni anno, l’Istituto di Candiolo è un riferimento nazionale per la presa in carico dei tumori dell’esofago. L’esperienza maturata consente di affrontare anche le situazioni più complesse, sempre con un approccio personalizzato, costruito sul profilo clinico e personale di ciascun paziente.
Tecnologie di imaging e diagnostica avanzata
La definizione del piano terapeutico parte sempre da una diagnosi accurata e tempestiva. I pazienti hanno accesso a tecnologie di imaging di ultima generazione, che permettono una valutazione precisa dell’estensione della malattia.
Inoltre l’Istituto offre indagini di laboratorio avanzate e sofisticate, comprese analisi molecolari e genomiche, fondamentali per identificare caratteristiche biologiche del tumore e orientare le decisioni terapeutiche.
Tecniche chirurgiche mininvasive e multidisciplinarietà
Quando indicata, la chirurgia viene eseguita con tecniche mininvasive (laparoscopiche o toracoscopiche), che riducono il trauma operatorio, favoriscono un più rapido recupero e migliorano la qualità di vita post-intervento. Ogni scelta terapeutica viene definita all’interno del GIC, garantendo un approccio coerente e integrato.
Ricerca clinica e accesso ai trial
In quanto IRCCS, l’Istituto di Candiolo unisce alla pratica clinica una forte vocazione alla ricerca scientifica. I pazienti possono essere valutati per l’inserimento in trial clinici attivi, che rappresentano una possibilità concreta di accedere a terapie innovative, non ancora disponibili nella pratica standard. La collaborazione tra cura e ricerca è un valore distintivo che si traduce in opportunità concrete per il paziente.
Cura e supporto in ogni fase del percorso
Il Gruppo Interdisciplinare di Cura si prende cura della persona in ogni fase: dalla diagnosi alla terapia, fino al follow-up, con attenzione al supporto nutrizionale, alla salute psicologica e al reinserimento nella vita quotidiana. L’organizzazione dei controlli, delle visite e delle terapie è pensata per garantire continuità e serenità, valorizzando sempre la dimensione umana della cura.